Alla prima edizione del congresso “Roma Cardiomiopatie 2024”, Health Stories ha intervistato lo special guest dell’evento: Perry Mark Elliott.
“Roma Cardiomiopatie” è un progetto ideato da cinque professioniste, responsabili del management delle cardiomiopatie in cinque centri romani di eccellenza, riconosciuti dalla comunità scientifica nazionale e internazionale: la professoressa Cristina Chimenti (Sapienza Università di Roma – Policlinico Umberto I), la dottoressa Francesca Graziani (Policlinico A. Gemelli Roma), la dottoressa Chiara Lanzillo (Policlinico Casilino), la professoressa Beatrice Musumeci (Sapienza Università di Roma – Policlinico S. Andrea) e della dottoressa Federica Re (Azienda Ospedaliera S. Camillo – Forlanini).
La prima edizione, curata da Dialecticon, si è svolta presso il Centro Congressi Forum Theatre di Roma il 18 e 19 ottobre 2024. Il congresso ha rappresentato un’importante occasione di approfondimento e confronto tra specialisti di rilievo nazionale e internazionale, che hanno potuto condividere sapere, competenze, best practice e valori. Tutto ciò ha trasformato le giornate in una vera esperienza di crescita professionale che ha favorito il consolidamento di network dedicati a queste complesse patologie. Un’esperienza valorizzata ulteriormente dalla partecipazione attiva dei giovani cardiologi, che ha conferito una prospettiva orientata al futuro.
Tra i momenti più attesi, l’intervento dello special guest, Perry Mark Elliott, una delle figure di spicco nel campo della medicina cardiovascolare a livello internazionale. Attualmente Professore di Medicina Cardiovascolare presso l’University College London (UCL) e Senior Investigator del National Institute for Health Research (NIHR) del Regno Unito, dirige l’Istituto di Scienze Cardiovascolari dell’UCL e il Centro per le Malattie del Muscolo Cardiaco presso il Bart’s Heart Centre di Londra.
Elliott è noto per il suo impegno nella ricerca sulle malattie cardiovascolari ereditarie, in particolare sulle cardiomiopatie. È stato eletto Fellow della European Society of Cardiology (ESC) e ha ricoperto ruoli di primo piano in numerosi comitati dell’ESC, incluso quello come Presidente della Heart Academy e del Consiglio sulla Genomica Cardiovascolare. Oltre alla carriera accademica, Elliott è attivo come Presidente di Cardiomyopathy UK, la principale organizzazione benefica europea per i pazienti affetti da malattie del muscolo cardiaco, e come Presidente della International Cardiomyopathy Network (ICoN), come ci ha raccontato in questa intervista.
Cosa l’ha spinta verso lo studio della cardiomiopatia?
Ho iniziato a fare ricerca come giovane cardiologo nel 1993. Sono andato al St. George’s di Londra e ho lavorato con Bill McKenna, che all’epoca era uno dei grandi nomi nel campo della cardiomiopatia. Non era mia intenzione restare: volevo completare la mia tesi e poi proseguire con una carriera in cardiologia generale. Ma in poco tempo mi sono interessato all’intero settore e, prima di rendermene conto, mi sono dedicato a questo percorso, prima nell’ambito della cardiologia accademica e poi molto specificamente nel campo della cardiomiopatia. Penso che ciò che mi abbia attratto sia il fatto che riguarda non solo la cardiologia, ma anche la medicina generale. È una questione di come la malattia influisce sulla vita quotidiana delle persone e delle loro famiglie. Era un settore all’avanguardia, stavamo imparando a conoscere la malattia e stavamo appena iniziando a introdurre la genetica nella pratica cardiologica. Per me, era davvero un’area eccitante in cui entrare. E da allora non ho mai smesso.
Abbiamo parlato del passato. Ma riguardo al futuro della cardiomiopatia ci sono innovazioni emergenti che spera possano aiutare le persone nel prossimo futuro?
Mi occupo di cardiomiopatia da 30 anni e non ho mai visto un periodo così eccitante come quello che stiamo vivendo. C’è molta attenzione da parte dell’industria, in particolare quella farmaceutica, per sviluppare nuovi trattamenti che possano, non solo curare i sintomi, ma forse anche modificare la malattia. Con alcune delle idee che stiamo esplorando, possiamo addirittura immaginare di curare la malattia stessa. Vediamo nuovi farmaci, nuove piccole molecole, ma stiamo anche iniziando a sperimentare con la terapia genica. Penso che le cardiomiopatie siano in prima linea nello sviluppo di questi nuovi approcci al trattamento delle malattie in cardiologia. Ovviamente non tutto funzionerà, ma comunque ci saranno risultati positivi piuttosto importanti. E penso che tra 5 o 10 anni, il campo sarà completamente trasformato. Prima potevamo solo alleviare i sintomi, ma credo che presto saremo in grado di cambiare l’intero corso della malattia.
Durante la sua carriera, qual è stato uno dei cambiamenti più significativi che ha notato?
Uno dei cambiamenti più grandi è stato l’accesso alle informazioni e ai dati. Quando mi stavo formando, se volevo consultare dei dati, dovevo andare in biblioteca, cercare un cd e scorrere per trovare un articolo. Ora, con un semplice smartphone, posso accedere immediatamente a quelle informazioni. Sia per i medici che per i pazienti e il pubblico in generale, c’è una quantità enorme di informazioni a disposizione. Questo ha cambiato il ruolo del medico: non possiamo più memorizzare tutto, quindi facciamo affidamento su queste fonti tanto quanto chiunque altro. Il nostro compito è saper interpretare queste informazioni. Dico spesso che il mio lavoro riguarda principalmente parlare di incertezze, aiutare i pazienti a prendere decisioni riguardo il loro trattamento basandomi sulle informazioni che ho, ma anche discutendo la loro filosofia e le loro scelte di vita. La medicina è molto diversa ora: una volta dicevamo alle persone cosa fare, ora è una discussione condivisa.
Durante il suo intervento sul palco di “Roma Cardiomiopatie” ha parlato di strategie incentrate sul paziente. Potrebbe spiegare meglio di cosa si tratta?
Parlavo delle misure incentrate sul paziente, misure funzionali che ho basato su studi clinici. Per decenni gli studi si sono concentrati sulla mortalità, cioè sul far vivere più a lungo le persone, il che ovviamente è importante, ma penso che non abbiamo prestato abbastanza attenzione a come sia vivere con una malattia. È difficile da misurare perché ognuno ha la propria esperienza. Vivere con una malattia non riguarda solo i sintomi, ma anche la psicologia della convivenza, come si interagisce con la famiglia, come si lavora, come si pianifica il futuro. Ora stiamo sviluppando nuovi modi di testare questi farmaci innovativi con un approccio multidimensionale che valuta l’impatto della malattia sulla persona. Non si tratta solo di numeri o curve di mortalità, ma di come possiamo migliorare la qualità di vita delle persone che vivono con queste malattie.